Tuesday, May 06, 2008

EMERGENZA BIRMANIA: Save the Children sta distribuendo i primi aiuti a 10.000 persone


A seguito del devastante ciclone che ha colpito il Myanmar, Save the Children sta provvedendo ad assicurare i primi aiuti di emergenza. L’organizzazione internazionale, che è una delle principali Ong presenti nel paese con 450 operatori e 35 uffici, sta avviando il suo intervento di aiuto a favore dei bambini e della popolazione colpita. In particolare sta provvedendo alla distribuzione di cibo, teli di plastica, tavolette per la potabilizzazione dell’acqua. L’intervento di aiuto sta interessando 5 fra le aree più colpite per un totale di 10.000 fra donne e bambini che beneficeranno dei primi soccorsi. Per chi volesse dare un aiuto:
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Conto corrente “AGIRE”:Codice IBAN: IT 20 C 02008 01768 000041106582Causale: "Emergenza Birmania Myanmar "

POSTA
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Foto: Wikipedia

In esclusiva per La Repubblica.it, le foto scattate dagli operatori di Save the Children a Myanmar:http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/save-the-children-photo/1.html

1 comment:

Chiara said...

DI DANIELE MASTROGIACOMO, La Repubblica- Vi scrivo dalla fine del mondo. Un inferno di sassi, mattoni, pezzi di ferro, lamiere e alberi. Alberi enormi, tronchi con un diametro di due metri. Strapazzati come fuscelli, con i rami che si sono trasformati in frecce o giavellotti acuminati, lanciati dal vento per centinaia di metri contro muri, case, finestre, portoni. Poi spezzati, sradicati e catapultati sulle macchine, i furgoni, i minibus, i piccoli negozi, i passanti. Rangoon è un'immensa palude. Adesso i tronchi giacciono a terra, bloccano le strade, chiudono gli incroci, pesano su una ragnatela di fili elettrici ammassati alla rinfusa, illuminati da lugubri scintille, sparpagliati sull'asfalto. Colpa del vento, della pioggia, di muri d'acqua alti decine di metri.

Raffiche fino a 250 chilometri orari: hanno martellato per dieci ore i grandi cartelloni pubblicitari, sventrato muri, piegato come burro i lampioni, scoperchiato tetti, sollevato ponti, inclinato tralicci, rosicchiato piloni in cemento armato. È sera, quando atterriamo con il volo proveniente da Bangkok.

Volo pieno. Uomini, donne, famiglie con bambini, che tornano in patria, i visi tirati gli occhi sbarrati, le occhiaie profonde. E poi i primi quattro volontari, francesi, tedeschi, olandesi dell'Unione Europea che la giunta militare rinchiusa a Naypyidaw, 400 chilometri da qui, ha deciso di far entrare, per il momento, come osservatori.

Quello che vedono è una vera apocalisse. Nel buio della notte, sotto un cielo ancora gonfio di pioggia, sciami di persone camminano lungo un percorso ad ostacoli. Molti incespicano, cadono, si rialzano, sommersi da un fiume di acqua che trascina verso valle. Si aiutano con una torcia, con lampade a olio, con le candele tremolanti sotto folate di un vento impetuoso, che ha ripreso a soffiare. Si passano questi barlumi di luce, avvolti da un buio nero come la pece.

Camminano in gruppo, come greggi sbandati: gli uomini in testa, dietro i bambini, aggrappati alle donne, vestite di stracci, bagnate fino alle ossa. Camminiamo in silenzio. Un silenzio grave, profondo. Nessun grido, nessun rombo. Persino gli animali sono fuggiti.

Niente auto, niente bus, niente camion. Sono le 19. Ora di punta. Il traffico è un ricordo. Tutto è cambiato. Niente è come prima. La benzina è aumentata di dieci volte: adesso costa 12 dollari al litro. È razionata. Per mezzo serbatoio si fa la fila tutta la notte. Nelle discese si spengono i motori. Si sentono i rumori di passi affrettati. Ombre che spuntano nella notte, scheletri che sembrano fantasmi. C'è aria di morte, di miseria, di rabbia e di protesta. La Birmania è stordita, rassegnata. Cinque giorni dopo, l'apocalisse mostra i segni della devastazione e libera i suoi incubi. Si parla di 100 mila morti, di 3 milioni senza tetto, di decine di migliaia di persone senza acqua e cibo.

Rangoon sembra un tragico presepe: punteggiata dalle luci dei generatori e dai falò che si accendono per strada. Per asciugarsi, riscaldarsi, dormire. La gente ha abbandonato le case, si è riversata sui marciapiedi. Dorme all'addiaccio: giacigli di fortuna, letti fatti con pezzi di legno, ferro e stoffe bagnate.

Solo il quartiere del centro, zona di uffici e di grandi alberghi, sopravvive grazie a un business che non si è mai interrotto, ma il resto, nei quartieri periferici, disseminati dalle case in lamiera rovesciate come fuscelli e i resti, sventrati, delle case in mattoni si vive come in guerra. Non si circola, c'è il costante pericolo di assalti. Sciacalli, disperati, moribondi, vagano alla ricerca di acqua e cibo.

"La gente ha perso tutto", ci dice con voce lieve ma preoccupata Mr. Ho, l'autista del taxi. "Hanno fame, stanno morendo; c'è il rischio di malattie. Le fogne sono straripate, hanno invaso i piani più bassi e le strade. Impossibile avventurarsi fuori dal centro. Non è sicuro. I militari? Ci sono, ma soltanto durante il giorno. Puliscono, tagliano gli alberi, spostano i grandi cartelloni, le transenne dalle strade".

L'autista scuote la testa. Con il dito della mano si tocca la tempia: "Sono stupidi, non hanno cervello". Sentenzia: "Brutta gente". Qualcuno ci ha detto che il quartiere di Chinatown, l'area commerciale, viva, allegra, colorata vicino al centro, è stata travolta dal ciclone Nargis. Proviamo a raggiungerlo. L'autista è perplesso, guarda con ansia l'orologio. Sono le dieci, fra meno di un'ora scatta il coprifuoco. Nulla di ufficiale: la gente si difende da sola. Di notte, non c'è traccia di polizia o di soldati. Il quartiere è immerso nel buio. Le bancarelle che riempivano i marciapiedi sono state spazzate dalla furia del ciclone. Le poche rimaste in piedi sono spostate in mezzo alla strada.

L'acqua ha invaso i portoni ed è arrivata ai primi piani. Adesso si è ritirata, ma l'aria è impregnata dall'odore acido di urina misto a spazzatura. Le poche luci accese sono attivate dai generatori. Funzionano a singhiozzo: si fanno i turni per razionare la benzina. Le scorte si stanno esaurendo. Molti dicono che presto finirà del tutto. Le voci rimbalzano da una strada all'altra. Tra smentite e conferme. L'incertezza crea altre tensioni.

Cinque giorni dopo, senza aiuti, crolla anche la speranza. Non si riesce nemmeno a pregare. Le pagode sono chiuse. I pennacchi delle cupole d'oro sono saltati come birilli. L'autista ci strattona, ci invita a rientrare. "È pericoloso", insiste, "meglio tornare con la luce". Rimontiamo in macchina. Qualcuno lancia un grido, altri salutano con la mano. Si accendono nuovi fuochi in mezzo alla strada. Si cucina alla meglio.
Legna e gasolio. Ma anche il cibo è razionato. I prezzi sono saliti, mangiare è diventato un lusso. Qui si campa con un dollaro al giorno. Poche centinaia di metri, due incroci e il paesaggio cambia radicalmente.

Un paradiso che confina con l'inferno. La grande arteria che congiunge la pagoda di Shvvedagon a quella di Sule è stata ripulita dai rami e dai frammenti di cartelloni strappati dal ciclone. Gli alberghi, i grattacieli dell'industria in vetro e cemento, brillano di luci. Sono immersi in una atmosfera festosa.
Business e interessi politici della giunta militare.

Negare, con ostinazione, gli aiuti internazionali, non è solo frutto dell'ottuso orgoglio di un regime chiuso in se stesso. Oltre i morti e i dispersi, il ciclone Nargis ha liberato i fantasmi di sempre. Lo straniero è visto con sospetto, rischia di contagiare i birmani. Dev'essere tenuto alla larga. Soprattutto in queste ore, alla vigilia di un referendum farsa che, nelle intenzioni della giunta, dovrebbe traghettare il paese verso la democrazia. È il primo dei sette punti di questa anomala e contestata Road Map. Si vota oggi e domani, ma tutti sanno chi saranno i vinti e i vincitori.

La Nld, National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, è stata esclusa. Il premio Nobel per la pace non si è potuta candidare perché sposata ad uno straniero: la prima condizione posta dalla giunta militare.

La presenza di volontari internazionali, di organismi umanitari o di semplici osservatori è considerata un vero incubo. I birmani potrebbero sentirsi protetti e finalmente liberi di votare come credono. Cadrebbero le barriere costruite in oltre mezzo secolo di isolamento. L'idea di una svolta ossessiona i militari.

Niente di tutto questo. Il blocco degli aiuti resta in vigore. I controlli alle frontiere sono rafforzati. Le zone dell'Irravvaddy, nel profondo sud-ovest, quelle sommerse da onde alte fino a sei metri dove si teme ci siano centomila morti, sono vietate a qualsiasi straniero. La cittadina di Bogalay, cuore del delta, è stata colpita e distrutta al 90 per cento. Ma ci sono centri, paesi, villaggi a poche decine di chilometri da qui, dove si segnalano migliaia di vittime e distruzioni catastrofiche. "La gente di quelle zone", ci conferma l'autista, "è furibonda, soffre la fame, lo stomaco è vuoto, basta poco per far esplodere una rivolta".

Torniamo verso l'aeroporto. La corrente elettrica è saltata perché sono caduti i piloni che illuminano le strade. Il vento li ha piegati come delle canne e alla fine li ha tranciati di netto. Un intero quartiere residenziale, a due passi dal lago Inya, sul quale si affaccia anche la casa dove è tenuta da dodici anni agli arresti Aung San Suu Kyi, è punteggiato dalle candele. "Il vento ha distrutto tutti i vetri", ci spiega l'autista, "la gente è fuggita e ieri è tornata. Vive al buio, cucina con il gasolio. Quando lo trova". Adesso lo sanno e lo dicono tutti. L'ufficio meteorologico indiano aveva avvertito tre giorni prima le autorità birmane: c'era una tempesta che si era formata nel cuore del Golfo del Bengala. Le rilevazioni satellitari dimostravano che stava assumendo la forza di un ciclone.

Era stato indicato anche il percorso. L'impatto con la foce del delta era inevitabile. Si potevano salvare decine di migliaia di persone. Arroccata nella sua città-bunker, la giunta militare ha sottovalutato il fenomeno. Non ha lanciato alcun allarme, non è intervenuta, non ha fatto evacuare quei cinquemila chilometri quadrati dove si è abbattuta l'apocalisse. "La pioggia e il vento si sono accaniti per dieci ore", ci conferma l'autista, "da mezzanotte alle dieci del mattino dopo. Colonne d'acqua che facevano tremare i palazzi, strappavano i tetti delle case, mitragliavano con le tegole e i pezzi di lamiera". Si sono tutti tappati in casa. Chi è fuggito è morto schiacciato dagli alberi, trafitto dai rami, dalle tegole e dai pezzi di lamiera che volavano come pallottole. La fine del mondo è una città piegata su se stessa, buia, lacera, sconvolta.

Tre militari, armati di una grande sega elettrica, tornano veloci verso la caserma. Camminano rapidi, rasenti ai muri, inseguiti dalle grida della gente. Il buio li avvolge e li trasforma in fantasmi. Torneranno stamani, con la luce del sole. In gruppo, scortati da altri soldati armati, tesi, diffidenti, nervosi. Pronti a sparare al primo segno di protesta. La notte appartiene agli altri. Ai sopravvissuti. Vagano senza una meta, gli occhi sbarrati, senza più lacrime per piangere i morti.

(9 maggio 2008)